I CALLED HIM MORGAN
IL 24 GIUGNO: Con la partecipazione straordinaria di ASHLEY KAHN – Grammy Award per la categoria Best Historical Album: del La sera del 19 febbraio 1972, durante una violenta tempesta di neve, allo Slugs, club newyorkese dell’East Village, il trombettista Lee Morgan, 33 anni, viene colpito e ucciso da un colpo di pistola. A far fuoco è Helen Joyner Crawford, la sua compagna, nonché agente e factotum, nello sgomento generale di amici e colleghi, che li conoscono come coppia inseparabile.
Recuperando l’intervista audio a Helen registrata nel ’96 dal docente e conduttore radio Larry Reni Thomas, lo svedese Kasper Collin ripercorre la loro storia d’amore attraversata dal jazz (un po’ come La La Land, film d’apertura del Concorso di Venezia 73) ma minata da presupposti sociali molto differenti.
La direzione della storia è indicata proprio dalla voce originale di Helen, incisa su nastro, e dalle interviste video di diversi colleghi musicisti più o meno coetanei di Morgan. Ma in larga parte anche dalle foto in bianco e nero delle session nelle varie band, tra compagni di scorribande anche alcoliche e automobilistiche, e da filmati di New York tra gli anni ’50 e i primi ’70: unico, irripetibile contenitore di una rivoluzione non solo musicale ma anche civile. Un archivio coronato dalla musica originale degli stessi protagonisti, talvolta riproposta in esecuzioni live televisive.
È a New York che Helen, originaria di Wilmington, North Carolina, abituata ad aprire la sua casa a musicisti e dropout, aveva conosciuto Lee nel 1967, quando era spiantato e depotenziato dall’uso di eroina. Hanno 14 anni di differenza, lei ha un figlio della stessa età di lui, concepito da adolescente e frutto della violenza di un uomo che morirà presto in circostanze non chiare, in una provincia da cui lei vuole fuggire ed emanciparsi. Helen ha la saggezza della strada, una sfacciataggine che non passa inosservata e cerca una rinascita nella Grande Mela. Morgan, dopo aver militato nei Jazz Messengers assemblati da Art Blakley a metà anni ’50, e poi nella Big Band di Dizzy Gillespie, aveva salvato con il suo disco più famoso, “The Sidewinder” (1963), i bilanci della Blue Note, ma poi era precipitato nella dipendenza.
Sessionman anche di John Coltrane, il trombettista è ricordato dal compagno sassofonista Wayne Shorter e dagli altri amici interpellati come un artista molto sicuro di sé e destinato al grande successo, dotato di qualità compositive e di esecuzione capaci di insidiare sia Gillespie che Miles Davis: agilità tecnica, esibizione energica. Insomma, un eccellente rappresentante di quello che in quel momento si definiva hard bop, ma curioso dell’evoluzione del genere verso l’r&b e il funky. Sarà l’amore di Helen a salvarlo e rilanciarne la carriera. Ma anche a decretarne la morte, accecata dalla gelosia per una donna più giovane, come in una tragedia greca in cui chi è stato vittima di violenza non può che ripeterla.
Fusione non sempre avvincente di ricostruzione criminale e doc musicale, I Called Him Morgan sceglie di rivelare il finale in apertura e di procedere quindi in senso cronologico, concedendo molto spazio agli interventi dei musicisti testimoni dei fatti. Collin, che nel 2006 aveva prodotto e diretto My Name Is Albert Ayler, sull’omonimo sassofonista free jazz statunitense, sfrutta a pieno la ricchezza dei repertori per esplorare una singolare, mutua assistenza. E pare più affascinato da quel particolare contesto e dalla ricerca di stile dei suoi protagonisti che interessato ai temi politici (accennati da Morgan nell’album “Search For A New Land”, del 1964) o alla frustrazione della comunità black per lo sfruttamento bianco di un patrimonio afroamericano. Fuori concorso alla Mostra di Venezia 2016.
ORARI DELLE PROIEZIONI DI I CALLED HIM MORGAN
- sabato 24 Giugno - 16:00